Leggendo Amata scrittura di Dacia Maraini, mi sono imbattuta in alcuni passaggi interessanti riguardo alle descrizioni in narrativa, in particolare quelle delle case nei romanzi.

Sul tema delle descrizioni in generale, ho ritrovato un suggerimento già incontrato altrove, per esempio in On Writing di Stephen King. Si tratta dell'importanza di concentrarsi su pochi dettagli significativi, evitando elenchi minuziosi e didascalici. A meno che, ovviamente, non lo stiamo facendo di proposito e l'elencazione minuziosa di un insieme di elementi descrittivi abbia una sua funzione precisa all'interno della nostra storia, del nostro modo di scrivere, del nostro mondo narrativo.

Secondo Dacia Maraini, le descrizioni non dovrebbero essere semplici specchi della realtà.

Non è importante restituire la realtà nella sua totalità. L'elenco diventerebbe insopportabile, sarebbe un inventario senza senso. La suggestione deriva da una scelta personale e imprevedibile di oggetti che l'autore decide di descrivere. Sarà magari uno solo ma è quello che dà il carattere alla scena che si sta descrivendo.

Tra gli ambienti più frequentemente descritti nei romanzi figurano le case: riflettono la vita dei personaggi, sono il luogo in cui avvengono eventi importanti, addirittura in qualche caso diventano loro le protagoniste (avete presente le case stregate, no?)

Ripensando alle mie letture mi sono venuti in mente alcuni esempi.

La casa di Montalbano, creata da Camilleri. La terrazza che si affaccia sul mare e la cucina con il frigorifero in cui Adelina lascia la cena pronta al commissario. Sono particolari che ricordo a distanza di anni (e no, non ho visto la serie TV).

Shirley Jackson: Abbiamo sempre vissuto nel castello e L'incubo di Hill House. Qui le case sono entità quasi sovrannaturali (soprattutto nel secondo romanzo) e hanno un ruolo centrale nelle vicende narrate. Lo stesso accade con l'Overlook Hotel di Stephen King in Shining.

La ragazza con l'orecchino di perla di Tracy Chevalier è ambientato principalmente all'interno dell'abitazione e dello studio del pittore Jan Vermeer a Delft nel Seicento. La casa racconta di una società rigidamente divisa in classi, con la servitù che ne conosce luoghi e funzioni che restano estranei ai padroni. E rivela aspetti importanti dei rapporti tra i personaggi (la stanza in cui marito e moglie si incontrano, l'atelier del pittore accessibile solo a qualcuno).

Ancora, la casa newyorkese di Joan Didion in L'anno del pensiero magico. È dove avviene la tragedia, ma è anche un luogo che parla di lei e del marito, del loro matrimonio, della loro vita di intellettuali in vista. È una casa del passato, con il telefono fisso, i tavolini in sala con le riviste e i quotidiani, ampi spazi per ricevere gli amici, le librerie cariche di libri. Ed è il luogo in cui lei resta da sola a fare i conti con il lavoro del lutto.

Poi mi viene in mente il villino nel vicolo in Le parole per dirlo di Marie Cardinal, dove lei va tre volte a settimana per sette agli incontri con il suo analista. Ce lo presenta in un incipit in cui gli aspetti descrittivi e l'azione da cui prende avvio il racconto si incastrano alla perfezione.

Secondo me vale la pena leggerlo tutto.

Era un vicolo senza uscita, col selciato in rovina, tutto buchi e cunette, con due stretti marciapiedi in parte distrutti. S’infilava come un dito screpolato tra due file di villini a uno o due piani, stretti l’uno contro l’altro. In fondo, era chiuso da due cancelli coperti da una misera vegetazione. Nulla trapelava dalle sue finestre, nessun cenno di intimità, nessuna attività. Sembrava di essere in provincia, invece si era nel centro di Parigi. Non c’era miseria, ma neppure ricchezza. Qui abitava la piccola borghesia, quella che nasconde i risparmi nelle calze di lana, dietro le crepe delle facciate, le persiane sdentate, le grondaie arrugginite e i muri decrepiti che si sgretolano pezzo dopo pezzo. Ma le porte erano solide e le finestre al pianterreno protette da robuste sbarre di ferro. Quest’isola tranquilla nel cuore della città risaliva probabilmente a una cinquantina di anni prima. Si scorgevano qua e là alcune tracce di liberty in quelle facciate scompaginate. Chissà chi ci abitava. A giudicare da certe vetrate, certi battenti di porta, certi motivi floreali, il vicolo era forse abitato da artisti in pensione, vecchi imbrattatele, vecchie cantanti liriche, anziani virtuosi del palcoscenico.
Per sette anni, tre volte alla settimana, ho camminato lungo questo vicolo, fino in fondo, fino al cancello di sinistra. So come cade la pioggia sui ciottoli di pietra, so come gli abitanti si riparano dal freddo. So che d’estate la vita diventa quasi agreste, con i vasi di gerani alle finestre e i gatti addormentati al sole. Conosco il vicolo di giorno e di sera. So che è sempre vuoto. È vuoto anche quando qualche pedone si affretta a raggiunger la propria porta, o quando qualche macchina esce da un garage. Non mi ricordo che ora fosse la prima volta che passai quel cancello. Non so se feci caso al piccolo giardino abbandonato a se stesso, alla ghiaia dell’angusto vialetto. Non so se contai i sette scalini che conducono al portoncino d’ingresso, se guardai il muro di pietra mentre aspettavo che mi venissero ad aprire. Non credo.
Vidi invece l’ometto bruno che mi porgeva la mano. Era minuto, vestito con cura e stava molto sulle sue. I suoi occhi erano neri, lisci come la testa di un chiodo. Gli obbedii quando mi disse di aspettare in una stanza che aprì sollevando una tenda di velluto. Era una sala da pranzo in stile Enrico II, il cui mobilio — tavolo, sedie, credenza, buffet — occupava quasi tutto lo spazio e incombeva su un’estranea come me con le sue sculture di gnomi e di foglie di edera, le sue colonnine a spirale, i suoi vassoi di rame, i suoi vasi cinesi. Queste bruttezze non contavano. Quel che contava era il silenzio. Attesi, braccata e tesa, fino a quando sentii una porta a battenti che si apriva, a destra della tenda di velluto, due persone che passavano sfiorando la tenda, poi il portoncino d’ingresso che si apriva e una voce borbottare: "Arrivederla, dottore."
Nessuna risposta e la porta si richiuse. Di nuovo i passi felpati verso la prima porta, alcuni secondi di silenzio, poi il parquet scricchiolò sotto il tappeto, segno che la porta era rimasta aperta, e alcuni suoni irriconoscibili. Poi la tenda di velluto si scostò e l’ometto bruno mi fece entrare nel suo studio. Eccomi seduta davanti alla scrivania. Lui è sprofondato in una poltrona nera accanto alla scrivania in modo tale che devo stare di traverso se voglio guardarlo in faccia. Sulla parete davanti a me c’è una libreria piena di volumi nella quale è incastrato un divano marrone con un salsicciotto di velluto e un piccolo cuscino. Il dottore sta chiaramente aspettando che mi decida a parlare.

Certo, rispetto alla scrittura contemporanea è un incipit lento, con molte parti descrittive. Oggi si predilige una scrittura che arriva prima al dunque, perché la nostra soglia di attenzione è sempre più bassa e bisogna, come si sente dire, "catturare l'attenzione del lettore" il prima possibile. Ma questo non significa che non ci sia molto da imparare dai buoni libri di cinquanta o più anni fa. Anzi.

Ecco quindi un esercizio che si può fare su questo: pensa alle tue letture e cerca di ricordare in quali romanzi si parlava di una casa, un edificio, uno studio, un'abitazione o un albergo. Successivamente, rileggi le descrizioni in quei libri e analizza i dettagli e i particolari che ti hanno colpito. Cerca di capire come sono fatte, quali sono i dettagli che a distanza di tempo erano rimasti nella tua memoria. E osserva come gli elementi descrittivi si accordano e si raccordano con il resto (azioni, dialoghi, pensieri).

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